lunedì 12 ottobre 2020

IL TEMPO PERDUTO

 

Dentro il fosso dalle alte sponde scure, le lunghe chiome proiettavano le loro cime brune sul tremolio dell’acqua sottostante. La buca aveva la dimensione di poco più di un metro quadrato ed era di forma ovale, tutta circondata da alti pioppi che sembravano essere piantati lì apposta. Quel luogo era un incanto: c’era l’acqua, gli alberi, gli uccelli che si rincorrevano sulle fitte fronde di un verde intenso, diverso da tutto il resto che costituiva allora la campagna dove trascorrevo il periodo migliore delle mie vacanze estive.

 Avevo risalito il piccolo ruscello fino alla sua sorgente, almeno a quella che credevo lo fosse,  che in fondo non era così lontana dal punto dove l’acqua, dopo aver attraversato un breve tratto di campagna, sgorgava a forza, tuffandosi fra alte pareti di roccia e proseguendo così la sua strada , in parte a vista, in parte sotterranea, verso la meglio nota “ Sciumaredda”.

In quell’angolo di paradiso trascorrevo le mie mattinate tra un’arrampicata e l’altra sugli alberi che traevano beneficio dall’ umidità del terreno circostante. C’era un fico secolare che con la fitta chioma formava un gigantesco ombrello sotto il quale trovavo rifugio nei momenti di forte calura. Più in là, un alto noce mi consentiva di raggiungere altezze inconsuete per spaziare con lo sguardo sull’intero territorio. I bordi del ruscello erano costeggiati da deliziosi melograni dai fiori vermigli e da una conturbante distesa di  canne fiorite. Una scoscesa scaletta di pietra conduceva al luogo più basso: quello in cui l’acqua sgorgava limpida e pura come nelle migliori sorgenti di montagna. Lì si scendeva per riempire i secchi, i bidoni e le “quartare” che ci servivano da provvista per l’intera giornata, dato che in casa non c’era il rubinetto e noi dovevamo lavarci fuori, tra le robinie che crescevano in fretta e che offrivano un valido riparo dai cocenti raggi del sole di quelle mattine di torrido Agosto. Noi ragazzi eravamo addetti a questo lavoro ed era una conquista guadagnare la salita fino alla casa, più e più volte, con quel carico insolito. La casa era in pietra, con muri spessi fino a un metro. In fondo, una vecchia grotta, scavata in tempo di guerra per ripararsi dai bombardamenti, era stata trasformata poi in cucina, un’ampia cucina dove tutto sapeva di fresco e di buono. Mia madre vi cucinava le crocchette di patate al sapore di aglio e menta, la salsa fresca di pomodori sbucciati e perfino delle squisite creme o budini che servivano da dessert e da merenda. In alto c’era una finestrella, con le grate di ferro, che arieggiava il locale, ma faceva entrare anche tanta polvere. Le formiche, le vespe, i gechi e ogni tipo di insetto, erano di casa, e noi ci difendevamo con delle vigorose spruzzate di DDT. In fondo alla cucina, un’appendice di quella che era stata la grotta, separata dal resto da una porticina con la rete, fungeva da frigorifero, dove trovavano posto i “ bummali ” con il vino e le “ quartare” con l’acqua fresca.

Mio zio era più giovane di mia madre ed io lo ricordo ancora con quell’aria baldanzosa e quell’euforia quasi fanciullesca quando, armato di tutto punto con gli attrezzi che servivano allo scopo, ci conduceva in  giro per i nostri luoghi magici alla ricerca di farfalle di vario tipo di cui era competente collezionista .Cercando di non far rumore che potesse distrarre l’insetto, l’acchiappafarfalle calava con mano sicura, intrappolando nella sua rete quell’arcobaleno di colori , mentre rallentava il suo volo per posarsi sul fiore prescelto. Estratta delicatamente dal cono di rete bianca ,la farfalla che destava maggiormente l’interesse per la peculiarità dei colori veniva poi tenuta cautamente tra le dita per non sciuparne le ali e successivamente infilzata sulla testa con uno spillo che la immobilizzasse per sempre, per venire poi esposta, insieme ad altre, nell’apposito contenitore bianco col coperchio di vetro che mio zio aveva costruito per ospitare i preziosi reperti. Numerose varietà di papilionacee facevano bella mostra nella sua bacheca e, sotto ad ognuna , il nome, scritto in latino, ne visualizzava la classificazione . Io ero percorsa da un brivido , allorquando assistevo alla crudele morte di quelle splendide e innocue creature, infatti, di tutto questo percorso, quello che mi attirava di più era la corsa in mezzo ai fiori  e all’erba alta. A volte , una vegetazione appiccicosa si attaccava ai vestiti ed io, incuriosita, la raccoglievo per farne piccoli cestini ed

altri oggetti che quella strana pianta mi consentiva di modellare e lì, nella mia campagna per buona parte incolta, ce n’era a iosa.

I mie vicini erano quattro ragazzi che, vedendoli nella città dove abitualmente vivevano, non avresti riconosciuto, tanto erano qui sporchi e malvestiti, quanto là lindi e puliti. La campagna li trasformava in tanti piccoli Robinson, pronti ad inventarsi sempre qualcosa per sfruttare appieno le peculiarità che quella natura così rigogliosa offriva. Ed eccoli a scavare tunnel per collegare un angolo particolarmente suggestivo ad un altro altrettanto ameno o a legare corde al ramo di un albero, da cui potersi lanciare, alla maniera di  Tarzan, per scavalcare un piccolo ruscello. Io osservavo, ma difficilmente potevo competere nelle loro acrobazie. Li seguivo invece nelle loro escursioni all’interno di un grande uliveto: lì ci perdevamo, e ci chiamavamo, immaginandoci sperduti in un bosco come Hansel e Gretel.

Di pomeriggio, con mia madre e mio fratello, salivamo nella parte più alta del terreno per raccogliere qualche mandorla, che poi consumavamo dopo averla privata, con una grossa pietra, della scorza spessa e verde scuro e dell’altra , più interna e dura, di colore marrone chiaro. Da lassù si dominava l’ampia vallata verdeggiante e  le colline di fronte e si potevano anche scorgere le case sulla cima della montagna che fronteggiava la nostra e da cui ci separava una considerevole distanza. Lassù abitava mia zia e noi tre a gridare in coro: “Mariaaaa……Mariaaaa……” . Alla fine lei ci sentiva e rispondeva: “Saliteeee”.

Dopo esserci brevemente consultati tra noi tre, decidevamo di compiere l’impresa. Il tragitto si presentava impervio: lungo la camminata, dovevamo tenerci ai rami e alle erbe spontanee per non scivolare. Mia madre si aiutava con un bastone. Attraversavamo terreni  incolti, per lo più mandorleti e uliveti piuttosto trascurati. Numerose erano le erbe spinose, che ci graffiavano le gambe, e le piante di ficodindia, che evitavamo accuratamente. A tre quarti dal percorso, però, un grande gelso ci attendeva per un po’ d’ombra e ristoro con i suoi succosi frutti, che ci imbrattavano le magliette oltremisura. Giunti finalmente in cima, mia madre veniva fatta accomodare per smaltire la stanchezza con una fresca bibita, mentre noi volavamo, con le braccia e con le gambe, fino a toccare i rami degli alberi più alti. La nostra fatica veniva alla fine premiata con il raggiungimento dell’agognato obiettivo: la conquista dell’altalena.